Divinazione in Mesopotamia: presagi, astrologia e rituali per interrogare il destino

Última actualización: outubro 30, 2025
  • La divinazione mesopotamica integrava aruspicina, segni spontanei, sogni e astrologia in un sistema coerente di interpretazione.
  • Il fegato era centrale: trattati dettagliati e modelli in argilla guidavano letture complesse a fini decisionali.
  • L’astrologia di corte orientava politica e calendario: novilunio, eclissi e fenomeni celesti incidevano sulla sorte del re.
  • Rituali apotropaici e testi diffusi in tutto il Vicino Oriente puntavano a neutralizzare presagi e governare l’incertezza.

divinazione mesopotamica

Nelle terre tra Tigri ed Eufrate, ogni scelta cruciale — dall’acquisto di un campo alla partenza per un viaggio d’affari, fino alle nozze — poteva passare per la consultazione dei segni. La divinazione in Mesopotamia era una pratica diffusa e multiforme, un vero linguaggio rituale per decifrare la volontà degli dèi e orientare tanto il destino personale quanto la sorte del regno.

Non tutti, però, potevano permettersi sacrifici costosi e l’intervento di un arùspice per esaminare le viscere di un animale. Accanto ai rituali “alti” convivevano metodi più economici e domestici: la lecanomanzia (olio sull’acqua), l’aleuromanzia (segni nella farina) e la libanomanzia (lettura del fumo d’incenso). Bastavano una ciotola d’acqua con qualche goccia d’olio, un velo di farina sparsa o una fumigazione profumata perché il mondo, letteralmente, “parlasse”.

Segni ovunque: un mondo che comunica

presagi e segni in Mesopotamia

Per i Mesopotamici, un evento qualunque — un verso, un passante, un bagliore nel cielo, il fruscio del vento — poteva rivelare un presagio. La comunicazione fra divinità e indovino era costante ma misteriosa, e i segni potevano emergere spontaneamente oppure essere provocati da un rituale. L’abilità stava nel saperli leggere; interpretare significava tradurre in decisioni concrete ciò che gli dèi lasciavano tra le pieghe della realtà.

Le tecniche erano molte e si incrociavano con ogni sfera del vivere: animali, astri, fenomeni atmosferici, perfino tratti del corpo umano o sogni notturni costituivano un repertorio di messaggi. Questa “teoria del possibile” — come fu definita in età accadica — era uno dei risultati intellettuali più raffinati del Vicino Oriente antico: tutto poteva contenere un significato, purché codificato e compreso.

Tra i metodi provocati più prestigiosi, svettava l’esame delle viscere animali. L’aruspicina rappresentava la disciplina regina, con regole, linguaggi e manuali tecnici che documentano una straordinaria precisione anatomica e simbolica. Ma prima di entrare nell’officina del sacrificio, vale la pena di guardare alle varianti più “leggere” e popolari, come le letture di olio, farina e fumo, che rendevano la divinazione accessibile anche a chi non poteva interpellare un collegio sacerdotale.

Alla base di tutte queste pratiche stava la figura del barû, lo specialista della previsione e dell’interpretazione, ponte fra l’umano e il divino. La sua autorevolezza non derivava solo dal rito, ma da una biblioteca di testi cuneiformi, continuamente ricopiati e aggiornati, che sistematizzavano secoli di osservazioni e casi.

Aruspicina: leggere le viscere, parlare con gli dèi

L’aruspicina, praticata soprattutto su agnelli e capretti, prevedeva due momenti cardine. Nel primo, l’animale, consacrato agli dèi (in particolare Shamash e Adad), veniva ucciso mentre l’arùspice poneva la domanda del consultante; nel secondo, si procedeva all’accurata dissezione, estraendo e ispezionando gli organi.

Si credeva che gli dèi imprimessero la loro risposta direttamente nelle viscere. Il linguaggio tecnico registrato su tavolette cuneiformi — con termini come “stazione”, “cammino”, “porta del palazzo”, “saluto”, “dito” — descriveva lo stato degli organi, deviazioni, anomalie e dettagli minuziosi. Molti di questi vocaboli si traducono letteralmente dall’accadico, ma l’identificazione anatomica esatta non è sempre chiara per noi, mentre lo era per gli specialisti del tempo.

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Un rapporto di epoca paleo-babilonese racconta, a titolo di esempio, un accertamento richiesto per valutare la collera di una divinità personale. Il referto elenca strutture “in ordine” o “presenti”, fino a concludere che il presagio è favorevole e non c’è motivo di preoccuparsi. La precisione è quasi “forense”: lo stato della cistifellea, il cosiddetto “dito”, polmoni e cuore, persino il numero delle anse intestinali venivano archiviati come indicatori divinatori.

Tra le viscere, il protagonista assoluto era il fegato. L’epatoscopia costituiva il cuore della disciplina, come attestano statue anatomiche in argilla e un’enorme tradizione testuale. Il grande trattato di aruspicina, nel I millennio a.C., contava quasi cento capitoli suddivisi in dieci libri, e ben sei erano dedicati al fegato.

I manuali riportano casistiche come questa, resa qui in parafrasi: se sul fegato compaiono due “strade” che si biforcano verso destra, il nemico reclamerà il territorio del principe; se si biforcano verso sinistra, sarà il principe a rivendicare le terre del nemico. Probabilmente il “cammino” corrispondeva a una rientranza o solco nella parte superiore del lobo sinistro.

Segni spontanei e repertori: animali, prodigi, fisionomie

La produzione cuneiforme più voluminosa riguardava i segni spontanei, cioè quelli che “accadevano” senza un rituale di provocazione. Uno dei compendi più vasti, noto con l’incipit accadico traducibile come “Se una città si trova in alto”, raccoglieva centinaia di capitoli che coprivano vita domestica, cittadina e rurale, comportamenti umani e animali.

Gli esempi spaziavano dalle formiche agli uccelli, passando per serpenti e bestiame: se un serpente taglia la strada a un uomo da destra a sinistra, la fama di quest’ultimo crescerà; se da sinistra a destra, la reputazione potrà risentirne. È un modo di leggere i movimenti della natura come discorsi a noi indirizzati.

Un settore a sé era la teratoscopia, lo studio delle nascite “mostruose” o prodigiose, in umani e animali (spesso ovini). Il relativo compendio contava 24 capitoli e concentrava i responsi soprattutto sul re e sullo Stato: per esempio, nel caso in cui una pecora partorisca un vitello, si preannunciava la morte del sovrano e un’invasione capace di distruggere metà del paese; nel caso di una malformazione bicefala con una testa sopra la spalla destra, erano attesi peste e sollevazione contro il trono.

Non mancava la fisionomica, chiamata in accadico alamdimmû, un corpus in 27 capitoli che traeva presagi dall’aspetto e dai tratti del volto e del corpo. Alcuni esempi tradizionalmente riportati: una donna con la testa grande è destinata alla ricchezza; un uomo con coscia sinistra punteggiata di efelidi su entrambi i lati rischia di perdere le sue proprietà; sopracciglia molto folte possono essere indice di povertà futura.

Il sogno, poi, era considerato uno stato divinatorio a pieno titolo. Esisteva un intero trattato onirico con riferimenti a circa tremila tipi di sogni e alle loro interpretazioni. A completare il quadro, un manuale “emerologico” stabiliva per ogni giorno dell’anno se fosse fausto o infausto, con schede utili a decidere quando iniziare una costruzione, svolgere un rito, avviare lavori agricoli o fissare un matrimonio.

Astrologia di corte: Luna, Sole, pianeti e il destino del re

Nella cerchia del potere, la disciplina dominante era l’astrologia. Gli astronomi babilonesi e assiri, al servizio della corte, osservavano con rigore la visibilità del primo spicchio di Luna (il novilunio che inaugurava il nuovo mese), il giorno di opposizione tra Sole e Luna, e naturalmente eclissi, piogge e tuoni. Da queste osservazioni dipendevano la prosperità del regno, la pace o la guerra, la riuscita dei raccolti, le inondazioni, la salute — e, in caso di eclissi, persino la vita del sovrano.

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Il grande trattato astrologico, noto dalle parole iniziali come Quando gli dèi Anu ed Enlil (Enūma Anu Enlil), era articolato in 70 capitoli su quattro volumi: Luna (con ampio spazio agli eclissi), Sole, fenomeni meteorologici del dio della tempesta e, infine, pianeti e costellazioni. Nel mondo ellenistico, non a caso, “Caldeo” divenne sinonimo di indovino: era l’immagine della sapienza stellare mesopotamica.

Gli esempi di presagio celeste sono eloquenti. Se Venere, al crepuscolo, appare davanti al Sole, i testi annunciano rischio di rivolta interna o di carestia. In senso opposto, un rapporto attribuito all’astronomo Nabû-ahhe-iddin nell’Assiria del VII secolo a.C. riferisce che, quando la Luna mostrava un alone con due stelle accanto, si preannunciava un regno longevo. La volta celeste, insomma, era letta come un manuale politico.

Non si trattava però di fatalismo. I presagi indicavano tendenze: il compito del re e dei sacerdoti era reagire con rituali appropriati per deviare il corso del male. Qui entra in scena un’altra grande opera, una sorta di “manuale per disinnescare” il presagio avverso.

Neutralizzare il male: rituali propiziatori e sostituzioni simboliche

Un vasto trattato babilonese, il cui titolo si può rendere come “Liberarsi del cattivo presagio”, contava circa 150 capitoli e descriveva pratiche propiziatorie: libazioni, fumigazioni, preghiere e recitazione di scongiuri. L’obiettivo era spostare l’esito preannunciato o trasferirlo su un sostituto rituale.

Colpisce, tra i molti esempi, il rimedio contro il presagio funesto dei latrati insistenti di un cane dentro la casa. Il rito prevedeva di modellare una piccola figura di cane in argilla, rivestirla di cuoio e annodarle alla coda crini di cavallo. Sulla riva del fiume si innalzava quindi un minuscolo altare rivolto al Sole con offerte: pane, datteri, sciroppo, burro, una coppa per libazioni, due brocche di birra e un brucia-profumi colmo di ginepro.

A quel punto, la persona toccata dal presagio si inginocchiava, sollevava la figurina e recitava tre volte un’invocazione al dio solare, affermando di offrirla come proprio sostituto e di lasciare, tramite quella figura, tutto il male ai flutti. Seguiva una seconda formula rivolta al fiume; quindi la statuetta veniva gettata nell’acqua e il richiedente sottoposto a un atto di purificazione. In questo modo il cattivo pronostico veniva simbolicamente “scaricato”.

Testi, specialisti e circolazione del sapere

La divinazione mesopotamica non era un insieme di superstizioni senza metodo: era una letteratura disciplinata da trattati, serie di presagi e formulari, trasmessa per secoli e copiata in diversi centri del Vicino Oriente. Dai tardi tempi paleo-babilonesi fino ai re seleucidi, i testi furono ricopiati e diffusi anche fuori dalla Mesopotamia.

Scrivani formati nelle lingue e nella scrittura mesopotamiche copiarono questi repertori a Susa (Elam), a Nuzi, nella capitale ittita Hattusa, e in luoghi come Qatna e Hazor in Siria e Palestina. Ciò testimonia l’autorevolezza di questa scienza dei segni e il suo valore transregionale, oltre che l’alta professionalizzazione degli operatori del sacro.

Sul fronte delle tecniche, un dato quantitativo spicca: oltre due terzi della prassi codificata riguardavano l’esame delle viscere (estispicina/aruspicina), mentre il resto copriva realtà “morbide” come fumo d’incenso, macchie d’olio, volo d’uccelli, e campi come la fisionomica o le nascite prodigiose. Astronomia/astrologia e onirocritica occupavano poi un posto strategico per il potere e per la vita quotidiana.

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I presagi venivano organizzati in lunghe serie, talora con migliaia di voci, per facilitare l’uso: l’operatore cercava nel repertorio il caso più vicino alla situazione osservata e applicava il responso, spesso modulandolo con fattori come il mese, il giorno, le condizioni meteorologiche. È un metodo deduttivo casistico, alla base di un sapere “previsionale” affine — per struttura — a certe compilazioni giuridiche e mediche coeve.

Un’ultima curiosità riguarda la forma con cui questi materiali ci giungono oggi. In alcune risorse digitali contemporanee compaiono note extratestuali, come avvisi moderni su “reso o sostituzione entro 30 giorni” relativi al documento: elementi ovviamente estranei al contenuto antico, ma che ricordano come il percorso di trasmissione dei testi sia lungo e passi per mediazioni editoriali odierne.

È importante ribadire il ruolo dell’osservazione sistematica del cielo in chiave politica. L’attenzione alla prima falce di Luna definiva l’inizio del mese mesopotamico, mentre l’opposizione Sole-Luna segnalava il pieno ciclo mensile e forniva coordinate per interpretazioni rituali e agricole. Eclissi, tuoni e piogge completavano il quadro; basti pensare alla credenza, ben attestata, che un’eclissi potesse minacciare la vita del monarca, costringendo la corte a controriti e sostituzioni simboliche del re.

La relazione fra presagi e contromisure ci racconta una visione dinamica del destino. Gli dèi non “condannavano” con un segno: indicavano un possibile esito, che il re e la comunità potevano provare a raddrizzare con offerte, purificazioni, preghiere e atti sostitutivi. È un’idea che rende la divinazione un’arte di governo e, insieme, una pratica profondamente sociale.

Perfino nelle tecniche più “povere” come lecanomanzia, aleuromanzia e libanomanzia emerge questo principio: l’olio che disegna arabeschi sull’acqua, la farina che cade in figure o il fumo che si arriccia nella brezza non sono casualità prive di senso, ma strumenti per entrare in dialogo con la sfera divina. L’accessibilità di questi metodi ampliava la platea dei consultanti e radicava la pratica divinatoria nella quotidianità.

La cornice etica era chiara: l’indovino doveva ottenere risposte “veritiere” e riferirle con precisione, attenendosi alla tecnica e alla grammatica dei presagi. Da qui l’insistenza su formule, misure, direzioni (destra/sinistra), tempi (mesi, giorni fausti/inausti) e strumenti (incensieri, libazioni, offerte commisurate) nei manuali.

È utile ricordare, infine, alcuni esempi emblematici che circolavano come “casi-scuola” tra gli esperti: Venere che precede il Sole al tramonto come annuncio di tensioni e carestie; la Luna cinta da alone con due stelle accanto come promessa di longevità regale. O ancora, lo scorrere di un serpente in un senso o nell’altro sul cammino dell’uomo come indizio della sua reputazione imminente.

Nel complesso, la divinazione mesopotamica appare come un sistema coerente che unisce osservazione, archivio, rituale e potere. Dalla camera di dissezione dell’arùspice al terrazzo dell’osservatorio, dal sogno notturno alla cucina dove si versa l’olio nell’acqua, l’orizzonte è uno solo: individuare segnali nel reale per agire in tempo, placare gli dèi e governare l’incertezza.

Un quadro così ricco non è soltanto una curiosità del passato: ci mostra una civiltà che, davanti al rischio e all’instabilità, ha costruito una rete di saperi e pratiche per decidere, prevenire e, quando necessario, riparare. Lì, tra fegati d’argilla e tavolette d’astronomia, tra fumo d’incenso e formule per “deviare” il male, si riconosce l’ambizione mesopotamica di dare forma — e qualche volta rotta — al futuro.

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