- Ricerca della conoscenza, responsabilità del creatore e rifiuto sociale strutturano l’etica del romanzo.
- Struttura epistolare a cornice e mimesi romantica fondano la verosimiglianza interna.
- Simboli chiave (fuoco, ghiaccio, libri) e il mito prometeico illuminano il conflitto.
- Spunti didattici: dibattiti bioetici, analisi dei personaggi e contesto storico-scientifico.
Frankenstein non è solo un caposaldo del gotico: è un laboratorio narrativo dove scienza, etica e immaginazione si sfidano a vicenda. In queste pagine Mary Shelley mette in scena la tensione tra il desiderio umano di conoscere e i limiti morali della creazione, tratteggiando un mondo dove il vero e il verosimile si intrecciano fino a confondersi.
Questo approfondimento, scritto in italiano corrente e senza giri di parole, riunisce i temi, i simboli e le risorse letterarie più rilevanti del romanzo, ne chiarisce la struttura a cornice, ne inserisce il dibattito nel contesto romantico e gotico, e offre spunti didattici per docenti e studenti. L’obiettivo è illuminare perché il “Prometeo moderno” continua a parlare alla nostra epoca di IA, bioingegneria e identità.
Temi, simboli e motivi ricorrenti in Frankenstein

Tra i fili portanti svetta la ricerca della conoscenza: Victor oltrepassa il confine tra vita e morte in nome di un’idea assoluta di progresso. Shelley ci fa chiedere se l’umano abbia il diritto di spingere la scienza “comunque vada”, e a quale costo etico. Questo interrogativo, nato tra galvanismo e alchimia, oggi riecheggia in genomica, clonazione e intelligenza artificiale, dove l’invenzione senza responsabilità rischia di generare i propri mostri.
Un secondo asse è la paura che produce rifiuto. Le esistenze di Victor e della Creatura si svolgono in parallelo: lo spavento per l’apparenza deforme genera esclusione a catena. Nemmeno la famiglia De Lacey, il cui anziano cieco ascolta la Creatura con umanità, riesce a sottrarsi al panico quando l’apparenza prevale. Da questo rigetto sistematico scaturisce la tragedia, perché chi è bandito dall’umano fatica a restare umano.
Il dilemma natura contro cultura permea ogni pagina: il “mostro” nasce malvagio o lo diventa? Shelley mette alla prova l’idea che l’ambiente possa deformare ciò che la natura ha lasciato aperto, spostando il peso delle responsabilità dal DNA al contesto sociale e, soprattutto, al creatore che abbandona.
La responsabilità della creazione è infatti il cuore morale del libro. Victor vuole essere “dio” ma rifiuta di essere “padre”: non dà nome, cura, guida. La Creatura è la cicatrice visibile dell’orgoglio scientifico e della paternità negata. Sotto questo profilo, Shelley rovescia la narrazione creativa classica: fallisce il creatore, non la creatura.
La solitudine unisce i protagonisti e il narratore-cornice, Robert Walton. L’isolamento dell’esploratore al Polo, quello di Victor nel suo laboratorio e della Creatura ai margini del mondo sono tre facce dello stesso gelo: l’ambizione senza legami brucia prima il senso etico, poi chi la coltiva.
Il motivo del doppio (il “medico e il mostro” ante litteram) rende speculari creatore e creatura: due sponde della stessa hybris. La tradizione ottocentesca svilupperà questo nervo (si pensi allo Strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde), ma Shelley lo carica di materia morale: la Creatura è lo specchio che Victor si rifiuta di guardare.
Non a caso il sottotitolo è “il Prometeo moderno”. Come Prometeo sfida il divino rubando il fuoco, Victor forza il confine della vita; come il Titano subisce punizione, così il giovane scienziato è divorato dal suo stesso atto, mentre la Creatura sconta l’esistenza come pena senza riscatto. Il monito non è contro il sapere, bensì contro il sapere scisso dalla responsabilità.
Struttura, contesto, generi e confini tra reale e immaginario

La costruzione è epistolare e a cornice: lettere di Walton alla sorella contengono il racconto in prima persona di Victor, che a sua volta incorpora la voce della Creatura. È un mise en abyme che moltiplica i piani e solleva dubbi di verosimiglianza (tempi, memoria, dettagli), ma tutto sta in piedi perché Shelley punta sulla coerenza interna più che sulla plausibilità esterna.
Qui entra in gioco la teoria della mimesi. In termini moderni (Costa Lima), il romanzo opera tra rappresentazione di primo grado e produzioni di secondo grado, mentre l’atto di lettura si regge sulla famosa “sospensione dell’incredulità” (Coleridge): il lettore accetta le regole del mondo diegetico e ne trae verità senza chiedere prove al mondo empirico.
Le radici e gli echi sono chiari: dall’impulso byroniano che diede origine al “racconto di fantasmi” del 1816, alla prima comparsa del vampiro moderno in Polidori; dai castelli di Ann Radcliffe e dal monachesimo di Lewis fino all’uso epistolare intensificato in Stoker. Shelley integra inoltre la vena Faustiana, echi shakespeariani (Calibano come fratello lontano della Creatura) e un robusto dialogo con il mito.
Il sostrato scientifico-mitico non è un’appendice. Sulle spalle di Galvani e del mesmerismo e degli alchimisti (Agrippa, Alberto Magno, Paracelso) si proietta un futuro fatto di cloni, automi e cyborg. Shelley intuisce che la questione non è “si può fare?”, ma “a quali condizioni etiche farlo?”. La modernità, insomma, era già nel suo laboratorio narrativo.
La riflessione tocca anche la filosofia della scienza. L’idea di paradigma (Kuhn) e l’incompletezza dei sistemi formali (Gödel) forniscono metafore potenti per mondi narrativi che si aprono l’uno nell’altro e non si chiudono mai del tutto. Non a caso racconti come la Biblioteca di Babele o le Rovine circolari di Borges, il Giardino dei sentieri che si biforcano, o il braccare allucinato de Il perseguitore di Cortázar, dialogano con questi “universi possibili”. E sullo schermo, i Corvi di Kurosawa o la Rosa purpurea del Cairo di Woody Allen mostrano figure che entrano e escono dalle cornici della rappresentazione.
Non manca la lente femminista. Dalla madre di Mary, Mary Wollstonecraft, all’impronta biografica messa in luce da Ellen Moers (il lutto, la colpa), Shelley scardina il canone maschile con un romanzo che svela l’assenza di cura maschile e la vulnerabilità del femminile (personaggi come Elizabeth e Justine sono vittime collaterali della hybris patriarcale). Anche la storia editoriale, tra anonimato e attribuzioni al marito Percy, ricorda quanto fosse accidentato lo spazio d’autrice nell’Ottocento.
Per l’aula, Frankenstein è un cantiere didattico d’eccezione. Funziona bene con lettura guidata e dibattiti su bioetica e responsabilità (fin dove può spingersi la scienza?), analisi dei personaggi (motivazioni, metamorfosi), contestualizzazione storica (Rivoluzione industriale, Romanticismo), attività creative (finali alternativi, lettere dal punto di vista della Creatura) e ricerche su influenze culturali (cinema, fumetto, serie). Domande-chiave utili: qual è il vero antagonista? La Creatura o l’orgoglio di Victor? Che cosa rende “umano” qualcuno: aspetto, azioni, o lo sguardo degli altri?
Nel disegno dei personaggi spiccano alcuni fuochi. Victor incarna l’ambizione che rifiuta il vincolo; la Creatura è il protagonista tragico che passa dall’innocenza alla vendetta; Walton è il testimone che può imparare a fermarsi. Intorno, figure come Elizabeth, Clerval e Justine testimoniano che spesso pagano gli innocenti. Se si volesse leggere la storia con la lente drammaturgica contemporanea, la traiettoria della Creatura è un “Save the Cat!” rovesciato: chiamata al mondo senza guida, apprendistato morale per via libresca, rivelazione rifiutata, domanda di compagnia negata, caduta in catena di vendette, ultima auto-consapevolezza senza elisir.
Lo spazio agisce da personaggio. L’Artico è estremo morale e geografico; le Alpi con i loro panorami sublimi fanno da contrappunto al tumulto interiore; Ingolstadt è la fabbrica della hybris; la casa dei De Lacey è il desiderio di appartenenza sempre mancata. Questi luoghi sono stati dell’anima: non scenografie, ma idee in forma di paesaggio.
Il sottotesto politico ed etico è netto: la scienza senza etica è cieca, la paternità senza cura è una fuga, la società che giudica per forma produce ciò che teme. Shelley istituisce molti “cliché” del genere (lo scienziato visionario, la creatura incompresa), ma lo fa in chiave fondativa, non derivativa: per questo Frankenstein rimane insieme mito, romanzo d’idee e specchio del presente.
Il romanzo dimostra che la verità letteraria può abitare territori dove il reale non arriva: l’importante è che le regole interne reggano e che chi narra non tradisca il patto con chi legge. Shelley non pretende di provarci come “accadono” i fatti: ci convince a chiederci perché accadono e chi ne porta il peso.
Tra etica, poetica e storia della forma, Frankenstein continua a parlarci perché mette insieme il pathos romantico, l’ambivalenza gotica e un’intelligenza teorica che tocca i limiti della rappresentazione (tra Gödel e Kuhn), suggerendo che ogni sistema – fictio o scienza – ha una zona d’ombra che non si chiude. È lì, in quell’ombra, che la Creatura alza la voce e ci chiede: e adesso, che cosa farai di me?
A colpo d’occhio, tutto converge su un punto: un romanzo epistolare e a cornice, innervato di miti e scienze di ieri, prefigura dilemmi di oggi con una forza simbolica rara; tra fuoco e ghiaccio, paternità e abbandono, sapere e cura, Shelley costruisce un mondo coerente dove il vero mostro non è chi appare tale, ma chi crea e non si assume il seguito.
