L’effetto del riscaldamento globale sugli iceberg: tra scienza, casi emblematici e oceani che cambiano

Última actualización: novembro 16, 2025
  • Il riscaldamento dell’Antartide assottiglia le piattaforme e favorisce distacchi, mentre il ritiro glaciale contribuisce all’innalzamento del mare.
  • Megaberg come A‑76 e A23a mostrano rotte, frammentazione e dinamiche guidate da correnti, temperatura e topografia del fondale.
  • La fusione degli iceberg rilascia ferro e nutrienti, stimolando fitoplancton e sequestrando 10–40 Mt C/anno, ma l’effetto non è risolutivo.

Iceberg e cambiamento climatico

Negli ultimi anni i satelliti hanno spalancato una finestra sui confini più remoti del pianeta, svelando eventi spettacolari che, fino a poco tempo fa, sarebbero passati inosservati. Dalle piattaforme glaciali antartiche si staccano colossi di ghiaccio che solcano l’Oceano Australe, e ogni nuovo distacco diventa un banco di prova per la scienza del clima. Il nesso tra riscaldamento globale, dinamiche delle piattaforme di ghiaccio e nascita degli iceberg è complesso: in gioco ci sono processi naturali millenari, ma anche fattori contemporanei che ne alterano intensità e frequenza.

Alcuni casi iconici hanno catalizzato l’attenzione pubblica e accademica, come l’A‑76 e l’A23a, giganti capaci di eguagliare o superare intere città per estensione. Questi iceberg non sono solo simboli visivi del cambiamento climatico e richiamano temi presenti in alcune frasi sull’ambiente e l’ecologia: quando si formano e poi si disgregano, ridisegnano i margini della criosfera, influenzano ecosistemi marini, correnti e scambi di carbonio tra oceano e atmosfera. La domanda che guida i ricercatori è tanto semplice quanto cruciale: quanto di ciò che osserviamo è parte del ciclo naturale e quanto, invece, è già la “firma” del riscaldamento globale?

Cosa intendiamo per iceberg

Un iceberg è un grande blocco di ghiaccio d’acqua dolce che galleggia in mare dopo essersi separato da una calotta o da una piattaforma glaciale. Per convenzione, si parla di iceberg quando la larghezza supera i cinque metri, mentre frammenti più piccoli ricadono in categorie come i bergy bits o i growlers. Gli iceberg sono comuni nelle acque fredde dell’Artico e dell’Antartico, ma possono spingersi in zone subpolari grazie alle correnti.

La fisica che ne regola il galleggiamento è altrettanto chiara: la densità del ghiaccio (circa 0,9 g/cm³) è inferiore a quella dell’acqua marina (circa 1,035 g/cm³), perciò la massa resta a galla. Tuttavia, la celebre “punta dell’iceberg” non è un modo di dire: tra l’87,5% e il 90% del volume rimane immerso, invisibile sotto la superficie. Questo rende insidiose le stime a occhio di forma e dimensioni e, storicamente, ha rappresentato un pericolo per la navigazione.

Come si formano: cicli naturali e meccanismi di distacco

Nell’Antartide il ciclo inizia con la neve che si accumula nell’interno del continente e, comprimendosi, diventa ghiaccio che lentamente fluisce verso la costa. Lì, la massa si assottiglia, galleggia e forma enormi piattaforme di ghiaccio relativamente piatte, spesso spesse da qualche centinaio a oltre 1.500 metri. Con l’azione combinata delle maree, delle onde e della spinta del ghiaccio retrostante, i margini si fratturano e generano iceberg. È un processo naturale, parte dell’equilibrio dinamico delle piattaforme.

La morfologia degli iceberg varia: quelli “tabulari” sono ampi, con superfici quasi livellate a tavola e pareti verticali, tipici dell’Antartide; i “non tabulari” presentano profili più irregolari, con guglie o cupole. La classificazione serve anche per inferire la loro origine e prevederne l’evoluzione, perché forma e spessore condizionano stabilità, rotta e tasso di fusione.

Antartide più calda: segnali inequivocabili

La Penisola Antartica è tra le aree del pianeta che si sono riscaldate più rapidamente negli ultimi decenni. In circa settant’anni, le temperature medie sono aumentate di circa 3 °C, un ritmo pari a cinque volte la media globale. Questo stato termico “più dolce” incide sia sullo stato delle piattaforme, che si assottigliano, sia sulle calotte e sui ghiacciai di terra, che arretrano.

Dal 1950 si stima una perdita di circa 25.000 km² di piattaforme di ghiaccio in Antartide. Ben il 90% dei ghiacciai della Penisola ha mostrato segnali di ritiro. L’effetto più preoccupante di lungo periodo non è il distacco in sé degli iceberg (che hanno impatto trascurabile sul livello marino quando già galleggiano), ma la perdita del ghiaccio “ancorato” a terra: lo sgravio delle piattaforme può accelerare il flusso dei ghiacciai nell’oceano, aumentando il contributo all’innalzamento del livello del mare.

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L’evento A‑76: un gigante che ha fatto scuola

Grazie ai radar del programma europeo di osservazione terrestre, Sentinel‑1 ha registrato un distacco spettacolare: l’iceberg A‑76. Lungo circa 170 km e largo 25 km, con dimensioni paragonabili a più metropoli, si è staccato dalla piattaforma Filchner‑Ronne, tra le più estese del continente, entrando nel Mare di Weddell. L’evento ha avuto risonanza mondiale non solo per la scala, ma perché ha stimolato il dibattito scientifico su frequenza e cause dei grandi distacchi.

Gli specialisti di glaciologia insistono su un punto: il distacco (“calving”) rientra in un ciclo naturale. La domanda è se oggi la frequenza, l’ampiezza e la rapidità dei distacchi stiano cambiando, in relazione a piattaforme più sottili e a maggiori fratture superficiali indotte, per esempio, da ristagni d’acqua di fusione. Anche senza puntare il dito su un singolo evento, i segnali cumulati nella regione congestionano l’ipotesi di un clima che, nel complesso, favorisce instabilità.

A23a, il “megaberg” che ha catturato il mondo

Tra i colossi più noti, l’A23a occupa un posto speciale. Si è staccato dalla piattaforma di Filchner‑Ronne nel 1986 e, per oltre trent’anni, è rimasto impigliato sul fondo del Mare di Weddell. La sua massa è stata variamente stimata nel tempo: da circa 3.600 fino a quasi 3.990 km² di estensione nei periodi di massima integrità, con un peso valutato attorno a 1–1,1 trilioni di tonnellate. Solo una piccola frazione, all’incirca il 10%, emergeva sopra il livello del mare, mentre il resto rimaneva sommerso, come accade a tutti gli iceberg.

La fase di immobilità è stata favorita da una “colonna di Taylor”, un vortice oceanico che ha contribuito a mantenerlo ancorato e stabile per decenni, riducendo la deriva. Poi il cambiamento: a partire dal 2020 l’A23a ha ripreso il movimento, uscendo finalmente dalla sua prigione sul fondale e affacciandosi nel “corridoio degli iceberg” che porta verso l’Atlantico meridionale.

Negli ultimi mesi la storia ha accelerato: l’A23a ha iniziato a disintegrarsi in blocchi molto grandi, seguendo un percorso simile a quello di altri “megaberg” come l’A68 e l’A76 nei pressi della Georgia del Sud. Le stime più recenti lo riducono a circa 1.700 km², un’area paragonabile alla Grande Londra, segno di una fase avanzata di frammentazione favorita da acque più calde e dall’avanzare della primavera australe.

Rotte, correnti e frammentazione: cosa sta succedendo

La dinamica degli iceberg è guidata da venti, correnti e dalla forma del fondale. L’A23a ha seguito in senso antiorario un poderoso getto della Circolazione Circumpolare Antartica, identificato come fascia meridionale (spesso abbreviata in FACCS), transitando intorno alla Georgia del Sud. In questa zona, la topografia sottomarina e i gradienti di corrente creano vere e proprie trappole e zone di stress che facilitano crepe e separazioni di enormi lastre.

Eventi di arenamento temporaneo e successivo rilascio sono comuni nella vita di un megaberg. Nel corso del 2024 sono stati documentati incagli episodici su piattaforme e soglie continentali, seguiti da nuovi spostamenti in pochi mesi. A questi stress meccanici si sommano la fusione basale dovuta ad acque relativamente più calde e l’erosione superficiale e laterale a causa di onde e temperature dell’aria in aumento.

Con la disintegrazione dell’A23a, il primato del “più grande iceberg attuale” è passato al D15a, di circa 3.000 km², quasi statico lungo la costa antartica, vicino alla base australiana di Davis. È un promemoria che la classifica dei giganti è fluida: contano l’origine, l’età, le rotte e la resistenza ai diversi ambienti oceanici attraversati.

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Iceberg, CO2 e “fertilizzazione” naturale dell’oceano

Il paradosso che incuriosisce ricercatori e opinione pubblica è che gli iceberg, figli di calotte che si scaldano, possono temporaneamente potenziare la capacità dell’oceano di assorbire CO2. Quando si sciolgono, rilasciano ferro e altri nutrienti intrappolati nel ghiaccio, fertilizzando le acque povere dell’Oceano Australe e stimolando fioriture di fitoplancton.

Studi sul campo con veicoli subacquei a controllo remoto hanno rilevato incrementi della vita marina fino a 3–3,5 km intorno agli iceberg: alghe microscopiche, krill, pesci e uccelli marini si concentrano in una sorta di “alone” di produttività. Analisi satellitari su oltre un decennio indicano che gli effetti possono estendersi molto oltre la scia visibile, fino a centinaia e perfino a circa 1.000 km, con aumenti della produttività nel Mare di Weddell stimati intorno al 40% in determinate condizioni.

Quanto vale questo “servizio ecosistemico” in termini climatici? Le stime suggeriscono che i grandi iceberg antartici possano promuovere la rimozione netta di 10–40 milioni di tonnellate di carbonio all’anno. È un contributo reale ma non risolutivo su scala globale: l’Oceano Australe emette e riassorbe quantità di carbonio molto più grandi e la fertilizzazione da iceberg, sebbene importante localmente e regionalmente, non può compensare le crescenti emissioni antropiche.

Ricerca sul campo: cosa ci dicono le missioni

Le campagne condotte con navi come la RRS Sir David Attenborough del British Antarctic Survey hanno permesso di raccogliere campioni in prossimità dell’A23a durante fasi di incaglio e rilascio. I ricercatori stanno valutando gli impatti del massiccio flusso di acqua dolce fredda su organismi bentonici e sulle acque circostanti: variazioni di salinità e stratificazione possono modificare catene trofiche e cicli dei nutrienti.

Le osservazioni in alta risoluzione rivelano aspetti spettacolari: pareti incise da archi e cavità, effetti microclimatici come nubi e nebbie attorno alle scarpate di ghiaccio alte decine di metri. Queste strutture non sono solo scenografiche: i profili influenzano l’interazione con le onde, la stabilità dei bordi e le sollecitazioni che preludono ai crolli.

Iceberg e livello del mare: cosa conta davvero

Un punto spesso frainteso: gli iceberg già galleggianti non alzano il livello del mare quando si sciolgono, perché il loro volume è già “scontato” nel bilancio di galleggiamento. Il nodo critico è a monte: piattaforme più sottili e frammentate riducono l’effetto “tampone” sui ghiacciai di terra, che possono accelerare verso l’oceano. È qui che sta il legame con l’innalzamento del livello marino su scala secolare.

La perdita di massa delle calotte antartiche, insieme a quella groenlandese, è tra i principali driver dell’aumento del livello marino globale nel XXI secolo. Il ritmo e l’ampiezza di futuri distacchi, uniti alla fusione basale delle piattaforme per acque più calde, determineranno quanto rapidamente cambierà la “cintura” costiera del mondo.

Biodiversità e catene alimentari

La fertilizzazione da iceberg innesca fioriture di fitoplancton che alimentano zooplancton e krill, base alimentare per pesci, uccelli marini e megafauna come le balene, influenzando le regioni biogeografiche del mondo. Tuttavia, un Antartico più caldo può anche sottrarre habitat, ridurre rifugi ghiacciati, alterare rotte migratorie e tempi di riproduzione. I segnali osservati nella Penisola Antartica, dove il 90% dei ghiacciai si è ritirato, suggeriscono impatti ecosistemici non lineari e verosimilmente crescenti.

Nel breve periodo i megaberg possono agire da “oasi mobili”, ma l’eccesso di acqua dolce e il rimescolamento possono anche perturbare comunità stabili. Per questo, gli scienziati insistono su monitoraggi prolungati, integrando osservazioni in situ, telerilevamento e modelli biogeochimici.

Rischi per la navigazione: ieri e oggi

La drammatica storia del Titanic ha scolpito nell’immaginario collettivo il pericolo iceberg. Oggi i rischi sono mitigati da sistemi di monitoraggio satellitare, radar e centri di allerta che tracciano i grandi blocchi in tempo quasi reale. Anche se i megaberg moderni sono meno minacciosi per le rotte abituali rispetto al passato, la porzione sommersa e la frammentazione restano fattori di attenzione per la sicurezza marittima, soprattutto in aree ad alta densità di traffico polare.

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La vita media di un iceberg è variabile e dipende da dimensioni e rotta, ma in media si aggira sui quattro anni per i blocchi “tipici”, mentre i colossi tabulari possono sopravvivere di più se rimangono in acque fredde e relativamente “protette”. La transizione verso acque più calde, viceversa, accelera erosione, rollover e collassi.

Il quadro umano e politico: un continente per la scienza

L’Antartide non ha popolazioni indigene né insediamenti civili permanenti; è un mosaico di basi di ricerca. Il Trattato Antartico del 1959 ha sancito il continente come “Riserva naturale dedicata alla Scienza e alla Pace”, limitando attività potenzialmente impattanti. Ciò nonostante, il sistema antartico non è isolato dal resto del pianeta: il riscaldamento globale, guidato dalle emissioni antropiche, raggiunge i suoi margini attraverso l’atmosfera e l’oceano.

In questo senso, l’emergere di giganti come A‑76 o A23a funziona da campanello d’allarme: sono eventi naturali, ma il contesto in cui avvengono sta cambiando. Il compito della ricerca è discriminare i driver, quantificare le tendenze e prevedere conseguenze a cascata su clima, mari ed ecosistemi.

Domande aperte su frequenza e tendenze

Una questione centrale è capire se i “megaberg” stiano diventando più comuni. Gli scienziati osservano che il distacco è naturale, ma il numero e la dimensione degli eventi potrebbero rispecchiare piattaforme più fragili in un oceano che si scalda e in correnti modificate. Al tempo stesso, le serie storiche di megaberg sono limitate e il campione statistico è piccolo, per cui servono archivi più lunghi e analisi comparative tra bacini, stagioni e condizioni oceanografiche.

Un dato robusto, invece, riguarda la produzione complessiva di iceberg: si stima che nell’Artico nascano ogni anno tra 10.000 e 50.000 iceberg (con numeri probabilmente maggiori in Antartide), e la fusione accelerata in acque più calde riduce la “vita media” dei blocchi una volta in mare aperto.

Geoingegneria? Perché gli iceberg non bastano

Le fioriture ferrose indotte dallo scioglimento suggeriscono per analogia idee di geoingegneria, come la fertilizzazione artificiale con ferro per sequestrare CO2. Ma le evidenze accumulate indicano che l’effetto degli iceberg, pur significativo localmente, non è una “bacchetta magica” climatica. La scala del problema richiede riduzioni delle emissioni, mentre le manipolazioni su vasta scala degli ecosistemi marini sono controverse e cariche di incognite ecologiche.

Inoltre, i benefici netti dipendono da quanto carbonio viene effettivamente trasferito in acque profonde per tempi sufficientemente lunghi. Senza questa “cattura a lungo termine”, l’assorbimento potrebbe essere parzialmente reversibile, limitandone l’efficacia climatica su orizzonti pluriannuali o pluridimensionali.

Guardando al quadro complessivo, i megaberg come l’A23a ricordano che clima, oceani e biosfera sono sistemi intrecciati. Dati di telerilevamento, missioni in mare e studi biogeochimici concordano su una realtà sfaccettata: distacchi naturali in un ambiente che cambia, impatti ecologici positivi e negativi sovrapposti, segnali di allarme che invitano a monitorare e capire prima di poter gestire.

Tra chilometri di ghiaccio che si frantumano, corridoi oceanici che deviano rotte e fioriture verdi che punteggiano il blu profondo, si delinea una storia fatta di equilibri mobili e soglie delicate. L’A‑76 ha mostrato la potenza del distacco tabulare; l’A23a ha insegnato la pazienza dell’attesa e la rapidità della fine; studi nel Mare di Weddell hanno svelato la fertilità sotto traccia; le statistiche della Penisola Antartica hanno messo numeri alla crisi. Non c’è un solo messaggio ma un mosaico coerente: gli iceberg raccontano come il riscaldamento globale stia rimodellando la criosfera e gli oceani, con implicazioni che vanno dalla biodiversità al livello del mare, dalla sicurezza marittima ai cicli del carbonio.

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