Perché il disboscamento è una grave emergenza ambientale globale

Última actualización: novembro 24, 2025
  • Il disboscamento è trainato da zootecnia e colture come la soia, oltre che da estrazione, urbanizzazione e occupazioni illegali.
  • Impatti multipli: perdita di biodiversità, alterazione del ciclo dell’acqua, emissioni (47,4 Gt CO₂e) e caldo locale fino a +4,4°C.
  • Brasile in primo piano: cali recenti in Amazzonia con più controlli, ma forte aumento nel Cerrado e criticità storiche nella Mata Atlântica.
  • Soluzioni: intensificazione sostenibile, tracciabilità, tutela dei diritti, riforestazione e integrazione del rischio da caldo nelle politiche.

Deforestazione problema ambientale globale

Il disboscamento non è solo tagliare alberi: è la rimozione totale o parziale della copertura vegetale per trasformare il suolo a usi agricoli, zootecnici, minerari o urbani. Questa trasformazione modifica profondamente gli ecosistemi, alimenta le crisi climatica e la perdita di biodiversità, altera il ciclo dell’acqua e colpisce società ed economie, specialmente nei paesi tropicali.

Le ragioni sono molteplici e si intrecciano con la storia dello sviluppo moderno: dall’esplosione industriale e urbana alla corsa all’agroalimentare, passando per l’estrazione di risorse e l’occupazione illegale di terre. Nel frattempo, le emissioni dovute a cambi d’uso del suolo hanno liberato almeno 47,4 miliardi di tonnellate di CO₂ equivalente tra il 1990 e il 2023, mentre nel 2022 la perdita globale di foreste è aumentata di circa il 4%, toccando 6,6 milioni di ettari; una quota enorme di questo totale è riconducibile al Brasile, responsabile di circa il 43% del disboscamento globale di foreste.

Cos’è il disboscamento e come si è intensificato

Sul piano ecologico, la deforestazione consiste nell’eliminazione della vegetazione nativa e nella sua sostituzione con altri usi del suolo. Storicamente il fenomeno si è accentuato dalla Rivoluzione industriale in avanti, con l’aumento della produzione e dei consumi che ha innescato la conversione di foreste temperate e tropicali su larga scala.

Inizialmente furono i paesi industrializzati a registrare le quote maggiori di perdita boschiva; col tempo, le curve sono scese in tali paesi e salite in molti paesi in via di sviluppo ed emergenti, dove l’aumento di popolazione, la pressione per esportazioni primarie e la domanda estera di materie prime hanno accelerato il disboscamento.

Le tecniche impiegate spaziano dal taglio meccanizzato all’uso di incendi controllati o dolosi, passando per strade che aprono nuovi fronti agricoli, opere infrastrutturali e cantieri estrattivi. In tutti i casi, la rimozione della copertura vegetale interrompe la protezione del suolo e innesca alterazioni physiche e biologiche che spesso diventano difficili da invertire.

Cause principali: agroespansione, estrazione e urbanizzazione

La causa dominante, a livello globale, è l’espansione dell’agroalimentare. In America Latina, stime della FAO attribuiscono a agricoltura e allevamento commerciale circa il 70% del disboscamento. Nel bioma amazzonico, fino all’80% delle aree deforestate è stato convertito in pascoli per bovini, evidenziando la centralità della zootecnia estensiva.

Accanto ai pascoli, cresce la coltivazione di soia come mangime animale: l’area coltivata è aumentata più volte nelle ultime decadi, in particolare tra Amazzonia e Cerrado. In Brasile, secondo MapBiomas, almeno il 90% della vegetazione naturale persa (1985–2019) è stato convertito a usi agropecuari, con una espansione di 78 milioni di ettari in 34 anni.

La pressione estrattiva aggrava il quadro: il garimpo aurifero e altre attività minerarie si addensano in memoria recente per il 92% dentro l’Amazzonia, invadendo aree protette e territori indigeni. La filiera del legno illegale è un altro motore: tra agosto 2020 e luglio 2021 circa il 40% delle aree di taglio nella regione amazzonica è avvenuto senza autorizzazioni, e quasi il 15% in zone indigene o di conservazione.

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Completano il quadro l’urbanizzazione e la crescita industriale, con nuove strade e insediamenti, e la grilagem (occupazione illegale di terre pubbliche): tra il 2019 e il 2021 più della metà del disboscamento amazzonico è avvenuto su terreni pubblici invasi, spesso seguiti da incendi per “pulire” il suolo e consolidare l’uso produttivo.

Impatto ambientale e climatico: biodiversità, acqua e caldo estremo

Quando cade la copertura vegetale, crollano habitat e reti ecologiche: la biodiversità si contrae, specie sensibili scivolano verso l’estinzione e gli ecosistemi perdono funzioni chiave, inclusi i servizi ecologici che sostengono agricoltura, pesca e approvvigionamento idrico.

La perdita di radici e lettiera espone i terreni a erosione e frane; lungo i corsi d’acqua aumenta l’assoreamento, cala l’infiltrazione e cambiano i regimi di piena. Il taglio delle foreste indebolisce anche l’evapotraspirazione, riducendo il vapore che alimenta le piogge e alterando i microclimi, con ricadute che possono farsi sentire decine di chilometri oltre l’area disboscata.

Oltre all’effetto sul carbonio globale, il disboscamento tropicale produce un riscaldamento locale aggiuntivo: in media circa 1°C, ma con picchi di +4,4°C nelle massime giornaliere nelle aree toccate, un raddoppio del rischio quando si somma al riscaldamento da gas serra. In Amazzonia proiezioni indicano entro il 2100 un aumento di 5–8°C e un calo delle piogge fino al 20% in assenza di robuste azioni di tutela.

A livello mondiale, solo nel 2018 si sono persi circa 12 milioni di ettari di foreste tropicali, pari a quasi 30 campi da calcio al minuto, mentre nel 2022 la superficie perduta è cresciuta ancora del 4% rispetto all’anno precedente: segnali di una tendenza critica che ostacola la lotta al cambiamento climatico.

Ricadute sociali, economiche e sanitarie

Le comunità che vivono in e attorno alle foreste subiscono impatti profondi: violazioni dei diritti umani (invasioni di terre indigene e tradizionali), perdita di mezzi di sussistenza, aumento della povertà rurale e tensioni sociali con escalation di violenza nelle aree di frontiera del disboscamento.

L’aria degradata dagli incendi legati alla conversione dei terreni aggrava patologie respiratorie (asma, bronchiti) e colpisce soprattutto bambini e anziani. Le alterazioni degli ecosistemi possono favorire zoonosi e malattie trasmesse da vettori (malaria, dengue, leishmaniosi), mentre evidenze epidemiologiche associano l’esposizione a PM2,5 da fumo d’incendi a un aumento dei parti pretermine.

Il calore estremo impatta produttività e salute dei lavoratori all’aperto: in contesti tropicali si osservano cali nelle prestazioni cognitive e maggiori rischi di infortuni e avvelenamento da pesticidi. Secondo stime dell’ILO, anche limitando il riscaldamento a 1,5°C, il Brasile potrebbe perdere l’equivalente di 850.000 posti di lavoro a tempo pieno entro il 2030 per riduzione delle ore lavorabili a causa dello stress da caldo.

In stati come Mato Grosso e Pará, che hanno concentrato oltre metà del disboscamento brasiliano tra 2008 e 2019, analisi mostrano che nelle aree deforestate il 45% dei lavoratori perde fino a mezz’ora (o più) di tempo di lavoro sicuro al giorno rispetto a chi opera in aree forestali, con effetti a catena su redditi e sicurezza alimentare.

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Il quadro globale e i paesi più coinvolti

Il Brasile guida spesso le classifiche di perdita di foreste primarie, seguito da paesi come Repubblica Democratica del Congo, Indonesia, Colombia, Bolivia e Malesia. In un solo anno (2018), Brasile e Indonesia hanno contribuito insieme a circa il 46% del disboscamento delle foreste tropicali primarie, segno della pressione concentrata in poche aree chiave del pianeta.

Non mancano segnali positivi: l’Indonesia ha ridotto il disboscamento in foreste primarie di circa il 40% negli ultimi anni grazie a politiche più severe; in Europa, la Norvegia ha rimboschito volumi superiori a quelli tagliati (circa 25 milioni di m³ piantati a fronte di 10 milioni di m³ tagliati dal 2014), mentre la Germania ha compensato parte delle perdite con riforestazione superiore alle superfici disboscate in periodi recenti.

Brasile: trend nazionali e biomi sotto pressione

Tra il 2000 e il 2017, l’Amazzonia brasiliana ha perso circa 400.000 km² di foreste (una superficie superiore alla Germania). Nel 2017 la devastazione nazionale ha toccato i 45.000 km², e tra agosto 2018 e luglio 2019 la perdita è cresciuta di quasi il 50% rispetto all’anno precedente; nel solo luglio 2019 il sistema DETER ha rilevato un +278% rispetto a luglio 2018.

Negli ultimi due anni si sono visti segnali di inversione: tra agosto 2023 e luglio 2024, il disboscamento amazzonico si è ridotto del 45,7% (4.315 km² contro 7.952 km² del periodo precedente), con cali notevoli in stati come Pará, Amazonas e Mato Grosso, grazie a fiscalizzazione rafforzata, sanzioni, distruzione di macchinari e sgombero di accampamenti di garimpeiros.

Nel Cerrado, la situazione è più allarmante: nel 2018 si sono persi 6.657 km² (in calo rispetto al 2010), ma nel lungo periodo la perdita di vegetazione naturale raggiunge circa il 51% e nel 2019 la deforestazione ha superato i 408.000 ettari. Nel 2023 la tendenza è peggiorata: +31% rispetto al 2022, quasi 500.000 ettari persi, con l’agropecuaria responsabile di oltre il 98% del totale.

La Mata Atlântica è il bioma storicamente più colpito: oggi rimane meno del 13% della copertura originaria e, in alcune valutazioni riferite alla foresta primaria intatta, i nuclei rimasti sono vicini all’1%. Ci sono però timidi miglioramenti: tra il 2017 e il 2018 il disboscamento è sceso del 9,8% (circa 113 km²), e tra gennaio e agosto 2023 si registra un −59% rispetto allo stesso periodo del 2022; parallelamente, il 24,1% delle sue 11.800 specie conosciute risultava minacciato nel 2022.

Nel complesso nazionale, tra 2000 e 2016 la vegetazione del Brasile è scesa da 4.017.505 km² a 3.719.801 km², e oltre 62.000 km² hanno cambiato uso (2014–2016), con l’ampliamento di agricoltura e pascoli ai margini dell’Amazzonia. La normativa esiste (Codice Forestale con riserve legali e APP), ma nel 2022 oltre il 99% dell’area disboscata presentava almeno un indizio di irregolarità, segno delle difficoltà di controllo.

Monitoraggio, linguaggio e rischi di semplificazione

Il Brasile controlla la deforestazione con i sistemi satellitari DETER (allerta rapida) e PRODES (stima annuale), coordinati da MMA e INPE, con l’azione di IBAMA e autorità statali per la vigilanza. Una fiscalizzazione efficace, come mostrano i cali recenti in Amazzonia, è cruciale per ridurre rapidamente le perdite.

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Anche il modo di comunicare conta. Sempre più si parla di “emergenza climatica” anziché di “riscaldamento globale”, per mettere al centro l’urgenza concreta. Analogamente, è utile distinguere tra deforestazione (conversione totale) e degradazione (foresta che resta ma perde qualità ecologica), evitando termini fuorvianti come “savanizzazione”, che possono banalizzare il valore del Cerrado.

Attenzione anche alle etichette di “energia pulita” e “neutralità del carbonio”: gli impatti lungo ciclo di vita (per esempio per idroelettrico o batterie) e i tempi lunghi del sequestro forestale rendono le compensazioni complesse; piantare alberi è utile, ma non cancella automaticamente l’effetto climatico immediato di un’area appena disboscata e bruciata.

Soluzioni efficaci: politiche pubbliche, mercati e società

Secondo analisi FAO (Stato delle Foreste del Mondo), per nutrire il mondo non serve espandere l’area agricola: basta intensificare in modo sostenibile la produttività, tutelare i suoli e rafforzare le reti di protezione sociale, salvaguardando le foreste come infrastrutture naturali del clima e dell’acqua.

In Brasile, proposte operative includono: fiscalizzazione efficace e sanzioni, imposta fondiaria per disincentivare la speculazione, estendere la moratoria della soia al Cerrado, chiudere i mercati alla carne di provenienza illegale, concedere credito solo a chi rispetta la legge e promuovere riforestazione con specie native.

A livello di governance climatica, è fondamentale integrare l’effetto di riscaldamento locale del disboscamento nei piani nazionali (NDC), nelle politiche settoriali (salute, lavoro, agricoltura) e nei sistemi di allerta per ondate di calore, garantendo acqua e ombra ai lavoratori, e monitorando condizioni termo-igrometriche nelle attività a rischio.

Gli strumenti di mercato e consumo contano: tracciabilità per carne e soia, criteri di acquisto che escludano catene collegate a deforestazione illegale, pressione su grandi gruppi del settore proteine animali (ad es. chiedere a realtà come JBS di eliminare ogni legame con aree disboscate), e certificazioni credibili per prodotti “deforestation-free”.

Cosa può fare ciascuno di noi

Le scelte individuali e collettive amplificano l’efficacia delle politiche: sostenere ONG e comunità che difendono foreste e diritti, adottare consumi consapevoli (meno carne bovina da filiere non tracciate, preferenza a prodotti certificati), promuovere educazione ambientale e chiedere trasparenza su investimenti energetici e infrastrutturali.

Investire e sostenere rinnovabili ben progettate è importante, ma con valutazioni di impatto rigorose; allo stesso tempo serve pressione politica per rafforzare le leggi, creare nuove aree protette, demarcare territori indigeni e quilombolas, e garantire risorse agli organi di controllo. Ogni petizione, consultazione pubblica o voto informato può spostare l’ago della bilancia.

L’urgenza è evidente: l’aumento della temperatura media globale (già circa +1,1°C dall’era preindustriale) espone miliardi di persone a condizioni termoigrometriche pericolose per più giorni l’anno, e i tropici sono in prima linea. Tenere intatte le grandi foreste tropicali riduce il rischio sanitario, sostiene l’economia e stabilizza il clima locale e globale.

La deforestazione è un fenomeno complesso ma non inevitabile: tagliare le emissioni legate al suolo, contenere la domanda di nuovi terreni, rafforzare la legalità e valorizzare pratiche produttive sostenibili è possibile e già produce risultati dove applicato; il futuro delle foreste – e della nostra sicurezza climatica – dipende dall’allineare politiche, mercati e società nella stessa direzione.

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